25 agosto 2009

Riflessioni e prospettive future di un'esperienza di mobilitazione dal basso: evoluzione del coordinamento lavoratori della scuola "3ottobre"

Il presente documento, non pretendendo di costituire un’analisi esaustiva di un anno di mobilitazioni del mondo della scuola, rappresenta un tentativo personale e parziale di riflessione critica sul movimento milanese di contestazione delle politiche di riforma della scuola pubblica attuate dal governo e sul ruolo in esso svolto dal Coordinamento lavoratori della scuola “3 ottobre”. Ci auguriamo che possa essere un punto di partenza per una riflessione collettiva, in modo da accrescere la consapevolezza di chi è impegnato in un lotta difficile e da fornire strumenti adeguati, affinché essa raggiunga i suoi obiettivi.

Nascita ed evoluzione del Coordinamento lavoratori della scuola “3 ottobre”. Riflessioni e prospettive future di un’esperienza di mobilitazione dal basso

di Sara Branca (paragrafi 1-6) e Matteo Cucchiani (paragrafi 7-10)

  1. Il PDL Aprea e la legge 133

Risale al 12 maggio scorso la proposta di legge n.° 593, meglio nota agli addetti ai lavori come PDL Aprea, presentata dall’onorevole del PDL Valentina Aprea. Già allora alcuni docenti, perlopiù precari, erano a conoscenza di questo disegno di radicale trasformazione dell’autogoverno delle istituzioni scolastiche e di riforma dello stato giuridico dei docenti. Ben prima, dunque, che montasse l’onda di proteste contro il governo Berlusconi e i tre ministeri che hanno sferrato un durissimo attacco alla scuola pubblica e ai lavoratori statali - non solo il Miur, ma anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la legge 133, e il Ministero della Funzione Pubblica, - i docenti hanno iniziato ad informarsi, a mobilitarsi e a protestare, come l’11 luglio 2008, data del primo presidio dei lavoratori della scuola, quando docenti di tutta Italia si ritrovarono davanti a Montecitorio, per affermare la loro contrarietà ai tagli e alla “riforma” della scuola pubblica statale, nel generale silenzio di partiti, sindacati e media.

A distanza di più di un anno persiste molta confusione intorno al PDL 593 non solo tra i cittadini comuni, ma anche tra alcuni insegnanti, non ancora pienamente consapevoli dei drastici cambiamenti che esso apporterà alla scuola pubblica, se sarà approvato. Infatti, se la 133 è già legge dal 06 agosto 2008, si può ancora giocare un’importante battaglia sul PDL Aprea, la cui approvazione per il momento stenta a decollare. 133 e 593: semplici numeri per molti, una vera catastrofe per il mondo dell’istruzione pubblica e per il futuro del paese. Sarà utile richiamare schematicamente quanto concerne direttamente la scuola statale delle “disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”: in estrema sintesi 7,8 miliardi di finanziamenti in meno, in dettaglio - mi riferisco alloschema di piano programmatico del MIUR di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze di cui all’art. 64 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 - 87.341 docenti e 44.500 ATA disoccupati tra il 2009 e il 2012.

Gli strumenti di questi tagli devastanti sono l’innalzamento progressivo del rapporto di alunni per classe, la riconduzione di tutte le cattedre a 18 ore di insegnamento e l’eliminazione della clausola di salvaguardia della titolarità nella riconduzione delle cattedre a 18 ore, la revisione dei curricoli istitutivi di I e II grado (che diminuisce il numero di ore settimanali), il taglio degli insegnanti tecnico-pratici, la riduzione degli insegnanti specialisti di lingua inglese ed il ritorno al “maestro prevalente” nella scuola primaria. Gli effetti? I più evidenti e drammatici sono oggi sotto gli occhi dei lavoratori precari, che dopo anni di studio e di lavoro, spesi per il conseguimento di una professionalità specifica, si trovano esclusi dal loro orizzonte lavorativo e in molti casi da un mercato del lavoro sempre più difficile e in crisi. Ma a subire le conseguenze di questi tagli scriteriati, che compromettono soprattutto la qualità del nostro sistema scolastico, saranno anche gli studenti, le loro famiglie e in ultimo la società tutta. Più studenti per classe significano, infatti, meno sicurezza, già compromessa da strutture scolastiche obsolete ed in declino e una didattica sempre meno individualizzata ed efficace; meno personale tecnico e amministrativo equivale a minor efficienza delle istituzioni scolastiche e a sorveglianza ridotta ed inadeguata; la riconduzione di tutte le cattedre a 18 ore implica classi sempre scoperte in caso di assenze. E l’elenco potrebbe continuare.

In questo scenario disastroso, che relega la scuola, sempre più vilipesa ed impoverita, in una posizione sociale subalterna, si inserisce il PDL Aprea, giunto nel mese di luglio 2009 alla sua quinta stesura, che prevede la possibilità di trasformare le istituzioni scolastiche in fondazioni di diritto privato, i cui “partner […] possono essere soggetti pubblici e privati, altre fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni non profit”, e sostituisce il Consiglio di Istituto con un Consiglio di Amministrazione aperto a membri esterni. Se dunque da un lato, in un sistema scolastico già estremamente eterogeneo, sono immessi ulteriori elementi di differenziazione e sperequazione tra le aree più ricche e quelle più depresse del paese, dall’altro si introduce nella scuola pubblica italiana il principio della sussidiarietà, per cui lo Stato si limiterà ad intervenire laddove i privati non arriveranno. La presenza di partners esterni nelle istituzioni scolastiche, da cui dipendono per il “sostegno della loro attività”, costituisce inoltre un condizionamento dell’attività didattica e può ridurre non solo la libertà di insegnamento dei docenti, sancita dalla Costituzione, ma anche lo spazio dei saperi non immediatamente produttivi ed economicamente rilevanti. Trincerandosi dietro la tanto sbandierata, quanto demagogica volontà di “premiare il merito”, il PDL 593, inoltre, modifica lo stato giuridico dei docenti, che saranno iscritti in albi regionali, e ne cambia il sistema di reclutamento, affidandolo alle singole istituzioni scolastiche o a reti di scuole, senza garantire con ciò criteri omogenei, trasparenti e oggettivi di valutazione. Non solo: divide e gerarchizza, prevedendo tre differenti categorie di docenti – ordinario, esperto, senior - con diverso trattamento giuridico ed economico, senza specificare ancora in base a quali criteri il MIUR determinerà annualmente il contingente massimo “per ciascuno dei livelli professionali di docente esperto e di docente senior e le modalità di ripartizione del contingente presso le singole scuole”.

  1. 24/09/2008: la prima riunione di precari di Milano

Già dopo la prima stesura del PDL Aprea e l’approvazione della legge 133, gli insegnanti precari di Milano e provincia si sono riuniti in assemblea il 24 settembre scorso, per informare i colleghi non ancora consapevoli e per definire una modalità condivisa di mobilitazione.

  1. 03/10/2008: nascita del Coordinamento dei lavoratori della scuola “3 ottobre”

Da questo primo incontro è emersa la necessità di dar vita ad un coordinamento che comprendesse non solo i docenti precari, ma anche quelli di ruolo e tutti i lavoratori della scuola pubblica, in completa autonomia da sigle sindacali e da partiti e nella convinzione che il tentativo di smantellamento messo in atto dal governo riguardi non soltanto i lavoratori più deboli, ma tutti coloro i quali abbiano a cuore il futuro della scuola pubblica. Con questa fisionomia, nasce, il 3 ottobre 2008, il primo coordinamento di lavoratori della scuola di Milano, in un momento di intensa e crescente mobilitazione del mondo della scuola e dell’università in difesa dell’istruzione pubblica statale di ogni ordine e grado. È il periodo di massima piena dell’“onda”, in cui più forte appare per tutti la possibilità di aprire una crepa nella solida compagine di un governo reso forte e sicuro da una maggioranza parlamentare numericamente schiacciante.

Dopo una fase iniziale, in cui vari gruppi di lavoro hanno studiato ed analizzato i testi di legge e creato strumenti di comunicazione ed informazione adeguati, come una mailinglist ed un blog, il “3 ottobre” ha adottato una strategia di lotta fondata sui comitati nelle singole scuole. Alla forma assembleare, che ha portato alla nascita stessa del Coordinamento, inoltre, si è da subito affiancato, in seguito sostituendola, un incontro più operativo, la riunione, aperta a tutti coloro i quali volessero dare un contributo attivo. Se in un primo momento l’assemblea ha assolto principalmente ad una funzione informativa e chiarificatrice circa i tagli ed i contenuti della “riforma”, successivamente essa si è configurata soprattutto come momento di confronto tra le esperienze dei neonati comitati all’interno delle varie scuole. Tuttavia, la partecipazione è andata progressivamente scemando, probabilmente perché non tutti i docenti presenti ai primi incontri hanno voluto o potuto impegnarsi personalmente nella costruzione di un percorso di lotta e, dopo aver ottenuto le notizie che interessavano e che non erano adeguatamente diffuse dalla stampa e dagli altri media, si sono ritirati a vita privata; o forse perché è mancata, in questa prima fase, la progettazione di iniziative più concrete in cui mettersi in gioco attivamente, che dessero visibilità alla questione delle sorti della scuola pubblica, di secondo grado soprattutto. La stessa gestione delle assemblee può forse aver contribuito a determinare la disaffezione di alcuni, sia perché è stato concesso uno spazio eccessivo alle interpretazioni personali della situazione, spesso catastrofiste e poco propositive, sia perché nella sproporzione della durata di alcuni interventi rispetto agli altri era ravvisabile una strutturazione gerarchica dell’assemblea stessa, ovvero l’esistenza di un ristretto gruppo direttivo sin dai primi incontri. Questa modalità di comunicazione asimmetrica e verticistica rischia insomma di trasformare i partecipanti in semplice uditorio e l’assemblea in conferenza.

  1. I comitati

In questa prima fase, laddove è stato possibile, sono stati creati comitati di docenti all’interno dei vari istituti, tutti secondari di secondo grado, con lo scopo di informare e mettere a punto strategie di opposizione alla “riforma”, all’interno delle singole scuole. Una forma di mobilitazione questa già sperimentata da Retescuole con successo nelle scuole primarie. In linea teorica aperti anche a studenti, genitori ed ATA, i comitati fondati dai membri più attivi del Coordinamento, pur interfacciandosi con questi interlocutori, sono stati però composti, nella maggior parte dei casi, da soli docenti. Tra i migliori risultati ottenuti sono da ricordare le mozioni di contrarietà alla legge 133 e al PDL Aprea, approvate dai Collegi Docenti di una decina di scuole superiori di Milano e provincia, ma anche le campagne di informazione rivolte a genitori e a studenti.

Molto attivi durante l’autunno, nel momento di maggior forza del movimento, i comitati si sono progressivamente indeboliti, una volta esaurita l’originaria funzione informativa ed approvate le mozioni. Se nella scuola primaria questa forma di organizzazione ha funzionato bene, infatti, in quella secondaria di primo e secondo grado, ha avuto minor successo, nel coinvolgere i genitori, ad esempio, e dunque nel proiettare verso l’esterno le ragioni della mobilitazione. È stato forse anche a causa di questa difficoltà di diffusione oltre i cancelli delle scuole - se si escludono le lezioni in piazza tenute da docenti delle superiori, sulla scorta dei colleghi dell’università - che i media hanno dato minor risalto alla scuola di secondo grado. Ma la ragione principale del successo dei comitati nelle scuole primarie risiede forse nella specificità della figura professionale del personale educativo, che, oltre ad essere abituato a lavorare in gruppo forse meglio dei colleghi delle superiori, ha un rapporto privilegiato con le famiglie per il delicato ruolo educativo che svolge. La relazione con i genitori si configura invece diversamente nelle scuole secondarie di primo e soprattutto di secondo grado, dove è generalmente molto più formale e distaccata, dunque più difficile.

Né è trascurabile il fatto che anche tra docenti e studenti medi sussistano differenti prospettive ed obiettivi, che non è sempre facile far collimare. Se è infatti vero che alcuni insegnanti si sono impegnati in tal senso, come nel caso dell’iniziativa promossa da Retescuole “io non do 5 in condotta”, bisogna pur rilevare l’eclatante fallimento della campagna, che ha raccolto solo sparuti consensi, poiché basata più sul bisogno di tener dietro ai provvedimenti demagogici del governo (sul voto in condotta appunto), in una sorta di speculare rovesciamento prospettico, che sulla ricerca di contenuti realmente e largamente condivisi.

Altra possibile chiave interpretativa del progressivo esaurirsi dei comitati sono le difficoltà incontrate all’interno dei vari istituti per la diffidenza di alcuni rappresentanti sindacali dinanzi a forme di partecipazione e di lotta totalmente autorganizzate, non incanalabili entro i binari del meccanismo di delega e perciò difficilmente controllabili.

  1. Le manifestazioni di piazza

Sin dal 17 ottobre 2008, data del primo sciopero (generale) indetto dal sindacalismo di base, il “3 ottobre” ha deciso di aderire, indipendentemente dalle sigle sindacali, a tutti gli scioperi di cui condividesse anche in linea di massima la piattaforma, per dare visibilità e creare dissenso attorno al problema della “riforma” della scuola. Dopo il successo inaspettato di questo primo sciopero, caratterizzato da una grande partecipazione del mondo dell’istruzione – docenti, ricercatori, studenti medi e universitari, genitori - sia nel corteo nazionale di Roma, sia in quello milanese, un altro importante appuntamento è stato lo sciopero dei lavoratori della scuola indetto il 30 ottobre dai sindacati confederali, a cui hanno aderito anche quelli di base. Ma la protesta non si è fermata, e il 12 dicembre la CGIL ha proclamato uno sciopero generale a cui ha partecipato anche il sindacalismo di base e nel quale i lavoratori della scuola pubblica hanno fatto sentire ancora con forza la loro voce. Con l’inverno il movimento dell’“onda” è cominciato a rifluire, e si è dovuto aspettare il 18 marzo perché la CGIL indicesse un nuovo sciopero, quello dei lavoratori della conoscenza; a Milano il “3 ottobre” ha preso parte allo spezzone della scuola, portando all’attenzione dei media il tema del precariato. Ma la partecipazione agli scioperi da parte dei lavoratori della scuola si è fatta sempre meno massiccia, e l’adesione all’ultimo sciopero dell’anno, indetto il 15 maggio 2009 dal sindacalismo di base, si è rivelata al di sotto delle aspettative.

Per completare e concludere la rassegna delle mobilitazioni di piazza, bisogna infine ricordare che il Coordinamento non si è limitato ad intervenire alle manifestazioni sindacali, ma ha veicolato la prospettiva di una parte consapevole del mondo dell’istruzione su temi civili e sociali, come la memoria storica, il precariato, la deriva securitaria e xenofoba dell’Italia contemporanea, partecipando con i propri contenuti ai cortei del 25 aprile, del primo maggio e del 23 maggio contro il decreto-sicurezza.

Non solo: altrettanto significativi sono stati il tentativo di contestazione al Ministro Gelmini, atteso a Milano in occasione di una conferenza e poi non presentatosi, o gli interventi sul PDL Aprea alla Scuola Media Rinascita-Livi, che da tempo sperimenta un reclutamento di tipo privatistico, e sul cosiddetto “anticipo di riforma” negli istituti tecnici, nel corso di un incontro tra DS e un rappresentante del governo.

  1. Il riflusso del movimento

Circa il defluire dell’“onda anomala” che si è rovesciata dalle scuole e dagli atenei nelle piazze di tutto il paese, azzarderei alcune ipotesi e riflessioni. Se da un lato si può considerare fisiologico il calo di un movimento sorto spontaneamente, dall’altro l’assenza di referenti politici può averne condizionato l’andamento. Ad un governo forte di una maggioranza soverchiante in Parlamento e di media troppo consenzienti, che non ha esitato a gettare discredito sul movimento e a mostrare i muscoli con gli studenti in piazza, non ha purtroppo corrisposto un’opposizione politica - parlamentare ed extraparlamentare - all’altezza della situazione, capace di fare della battaglia per un’istruzione pubblica di qualità, libera ed aperta una questione civile e politica. Ancora una volta chi siede all’opposizione in Parlamento non ha saputo proiettarsi al di fuori di una dimensione salottiera dell’agire politico, colma di demagogia, disinformazione – specialmente sulle superiori - e luoghi comuni; ma anche al di fuori dei palazzi la sinistra è stata perlomeno latente, rimanendo inerte dinanzi alla nascita di un grande movimento spontaneo, e troppo distante dalla concreta realtà dei lavoratori e dei loro problemi.

D’altra parte nemmeno i sindacati hanno saputo informare adeguatamente ed assecondare il desiderio di mobilitazione dei lavoratori della scuola, a cominciare dalla rottura dell’unità avvenuta proprio il 30 ottobre scorso, quando CISL e UIL hanno firmato un accordo separato con il Ministero della Funzione Pubblica per l’aumento di 40 Euro netti. Né va sottaciuto l’atteggiamento alquanto ambiguo della CGIL, che, se da un lato ha mosso critiche radicali al governo su molte questioni, dall’altro, pur avendo sollevato problemi importanti, come la sicurezza nelle aule scolastiche connessa all’aumento del numero di studenti per classe, non ha saputo poi trarre le conseguenze del caso, dando l’impressione di seguire una schizofrenica marcia a due tempi, quello vivace degli scioperi e delle mobilitazioni di piazza e l’adagio delle dichiarazioni di principio e delle battaglie puramente simboliche, così da accreditarsi, come Giano bifronte, sia presso i lavoratori della scuola, come unico baluardo dei diritti acquisiti contro gli attacchi del governo, sia presso quest’ultimo, quale interlocutore plausibile al tavolo delle trattative. Così il sindacato ha rinunciato a denunciare alla magistratura le gravi situazioni di incapienza delle aule scolastiche, a diffidare i DS dall’assegnare cattedre superiori alle 18 ore settimanali, a bloccare, con una chiara scelta di campo, l’anticipo della riforma in 15 istituti tecnici della provincia di Milano.

  1. L’Assemblea delle scuole superiori

È pure vero che il movimento non è stato in grado di darsi autonomamente una continuità, né di creare un percorso unitario al proprio interno. Circa le ragioni di questa mancanza, mi limito ad alcune considerazioni sulla sola realtà milanese. Nelle scuole secondarie, in particolare in quelle di secondo grado, il tentativo di costruire un’unità si è tradotto nella nascita dell’Assemblea delle scuole superiori, per iniziativa congiunta del “3 ottobre”, di Rete scuole e dei collettivi studenteschi Climax e Cantiere, sulla scorta dell’esistente Assemblea delle scuole del milanese, realizzata da Rete scuole. Scopo dell’Assemblea delle scuole superiori, quello di creare una rete interconnessa di comitati variegati in quanto a composizione, volta a lanciare iniziative di mobilitazione su scala provinciale. I risultati complessivamente deludenti di alcune delle iniziative programmate, come la due-giorni di protesta delle scuole superiori del milanese, che il 27 e 28 marzo ha coinvolto solo un numero limitato di istituti, e lo stesso sfaldamento dell’Assemblea nella primavera scorsa richiedono una riflessione sul suo stesso progetto. L’Assemblea è parsa da subito scontare tutti i limiti e le difficoltà, quantitativi e qualitativi, della strategia di azione per comitati: solo in poche scuole essi si sono radicati in autunno, e in numero ancora più esiguo sono sopravvissuti alla pausa invernale e al calo del movimento; la loro stessa composizione è stata ben diversa da quella auspicata. I docenti hanno fatto la parte del leone, quasi assenti gli ATA e i genitori, fluttuante la presenza degli studenti. I quali, per giunta, hanno talora agito più come membri di un collettivo studentesco cittadino, con obiettivi, linguaggi e tempi propri, che come parte effettiva di un comitato misto. Di conseguenza è potuto accadere che un collettivo, perseguendo finalità proprie, anziché gli obiettivi complessivi del movimento, abbia contribuito ad allontanarne un altro, che non condivideva quelle finalità. Sono mancate in sostanza una strategia unitaria condivisa e la capacità di trascendere il ristretto ambito scolastico, per fare della scuola una questione sociale complessiva, come sono riuscite a fare le maestre della scuola primaria.

Anche le iniziative promosse dall’Assemblea hanno presentato un’ambiguità di fondo, non dissimile da quella di alcune sigle sindacali. Così l’inchiesta sulla sicurezza nelle scuole ha consentito di portare alla luce il mancato rispetto della normativa in molte aule, peraltro noto sia all’Amministrazione, sia ai sindacati, senza tradursi tuttavia in uno strumento per ostacolare realmente la politica scolastica del governo, come pure avrebbe potuto. Un buon risultato si è quindi rivelato un’occasione mancata dal punto di vista pratico, attestandosi su un piano esclusivamente simbolico e di principio. Infine, l’Assemblea si è spenta per l’esaurimento dei comitati, messi in crisi dall’assenza di una chiara prospettiva di lotta e dal mancato appoggio del mondo sindacale negli snodi decisivi della loro vicenda.

  1. I presìdi

La fine della mobilitazione di massa, l’esaurimento dell’interesse dei media per i problemi della scuola e, a livello più particolare, la crisi dei comitati negli istituti superiori hanno portato il coordinamento “3 ottobre” ad una revisione della sua strategia. Alle iniziative condotte all’interno delle singole scuole, in alcuni casi simbolicamente importanti, ma poco incisive sul piano pratico, si è deciso di affiancare attività rivolte all’esterno, sul territorio, per diffondere tra i cittadini l’informazione sulla “riforma Tremonti-Gelmini-Aprea” e per garantire visibilità mediatica al movimento in fase calante. In questa nuova prospettiva si colloca la partecipazione del Coordinamento ai cortei menzionati e con questi intenti è nato il presidio del 3 marzo davanti all’USP, che ha avuto il merito di far breccia in un deserto informativo durato mesi, inducendo le tv e i giornali ad affrontare il tema del precariato scolastico e le timide organizzazioni sindacali a chiedere all’Amministrazione risposte concrete per migliaia di lavoratori in scadenza di contratto.

Forte del buon risultato ottenuto, il Coordinamento, con la collaborazione di dottorandi, ricercatori universitari e redattori precari ha lanciato una nuova iniziativa, un presidio di quattro giorni, dall’1 al 4 aprile, davanti alla sede della regione Lombardia. È stato il primo tentativo di creazione di un collegamento stabile con lavoratori di altri settori, colpiti dalle politiche governative o dalla crisi internazionale. La scelta del luogo è stata motivata dal tema caldo del momento, l’accordo Gelmini-Formigoni per la regionalizzazione dell’istruzione professionale, primo passo verso il superamento del sistema scolastico nazionale. Sono stati quattro giorni di informazione permanente alla cittadinanza, con migliaia di volantini distribuiti, dibattiti tra lavoratori, performance artistiche ed iniziative di protesta.

Ultimo in ordine di tempo, il 16 giugno si è tenuto davanti alla Prefettura il presidio dei lavoratori uniti contro la crisi, pensato come un tentativo organico di organizzazione di un percorso di mobilitazione unitaria con lavoratori di diversi ambiti. La partecipazione all’iniziativa, probabilmente inferiore alle attese, ha riflettuto l’assenza di una reale mobilitazione di massa in quel momento. Ma ancor prima della mobilitazione, è mancata una coscienza del carattere globale, inter-settoriale della crisi, dell’unità della strategia complessiva di attacco allo stato sociale intrapresa dal governo e da Confindustria e della centralità della scuola e della sanità pubbliche nel nostro sistema. La somma di tante debolezze non si è tradotta in forza, a testimonianza dell’immaturità del tentativo intrapreso.

  1. La nascita del Coordinamento Precari Scuola e il sit-in del 15 luglio

In un clima di generale smobilitazione del mondo della scuola, ad un mese dalla pausa estiva, quando la scure di Tremonti stava per abbattersi inesorabilmente sulla testa di decine di migliaia di precari e i docenti erano divisi tra l’angoscia per il futuro, la frenesia da pagella e l’agognato riposo, in generale controtendenza, i comitati di docenti precari sorti spontaneamente in molte città italiane si sono dati appuntamento a Roma il 14 maggio. Non è stata la prima volta, nel corso di un anno denso di lotte, ma in quest’occasione hanno stabilito di darsi una struttura: è nato così il Coordinamento Precari Scuola, composto da 18 membri fondativi, tra cui il “3 ottobre” di Milano, organizzato in una mailing list, con lo scopo di pianificare sin da subito iniziative coordinate su tutto il territorio nazionale.

Il primo appuntamento, il 15 luglio a Roma, è stato un sit-in davanti a Montecitorio per ribadire le parole d’ordine di sempre: assunzione per i precari su tutti i posti disponibili, ritiro dei tagli, contrarietà al PDL Aprea. Sindacati e partiti d’opposizione, parlamentare ed extraparlamentare, si sono affrettati ad appoggiare la manifestazione, che ha costretto ancora una volta i mezzi di stampa ad occuparsi di scuola e di precarietà, questa volta in pieno luglio. Indubbiamente un segnale di vitalità; l’inizio di una nuova strategia?

  1. Quali forme di mobilitazione per il futuro?

Alla vigilia del nuovo anno scolastico la situazione si presenta molto più chiara rispetto al precedente. La legge 133 ha cessato di essere un numero e tra breve si tradurrà in decine di migliaia di disoccupati. A niente sono valse le rassicurazioni di governanti ed amministratori, a poco è servita l’eccezionale ondata di pensionamenti volontari: i tagli superano di gran lunga le fuoriuscite dal lavoro, e ai precari “tagliati” si aggiungono anche tanti soprannumerari di ruolo. Ora che i licenziamenti sono altrettanti spazi vuoti negli elenchi delle disponibilità degli organici di fatto non sono certo scomparsi i motivi per cui combattere. Siamo solo all’inizio dell’applicazione della legge 133: essa continuerà a mietere vittime per altri due anni, poi sarà la riforma Gelmini a continuare il massacro sociale, fino all’espulsione dal lavoro di 200mila uomini e donne. Resta inoltre la minaccia del PDL Aprea, che si ispira a principi troppo diffusi nel mondo politico ed economico italiano per essere abbandonato prima della definitiva realizzazione.

Ci sono quindi mille motivi per continuare la lotta. La domanda è però: “come?”. Anche in questo caso, un anno di esperienza rappresenta un vantaggio, in termini di consapevolezza e di maturità. Abbiamo analizzato testi di legge, regolamenti, bozze e quadri orari; soprattutto, abbiamo imparato a leggere, dietro un testo apparentemente neutro, un disegno politicamente orientato, un’idea di scuola aziendalista, produttivista e classista, volta a formare non futuri cittadini consapevoli, bensì lavoratori precari facilmente fungibili. Dobbiamo quindi riprendere il nostro lavoro con maggiore lucidità, tenendo conto dei successi e degli errori dell’anno scorso.

In primo luogo, è necessario attrarre nuove persone all’interno del coordinamento. Le nomine del personale precario potranno fornire un’occasione importante, soprattutto a partire dalle convocazioni successive alla prima, alle quali saranno presenti anche potenziali disoccupati.

In secondo luogo, è imprescindibile un confronto preliminare da tenersi subito dopo l’inizio delle lezioni, che si prefigga due obiettivi principali: informare sinteticamente i nuovi membri sulla politica scolastica del governo e sulle iniziative di lotta intraprese l’anno scorso per contrastarla; elaborare una strategia condivisa per rilanciare la mobilitazione. L’incontro dovrebbe costituire una base di lancio per nuove, concrete iniziative.

Anche quest’anno, sarà necessario continuare ad informare colleghi, studenti, personale ATA, genitori della scuola in cui si lavorerà, con la consapevolezza, però, che questo compito è destinato a raggiungere risultati soltanto simbolici fino a quando non si costringeranno i grandi sindacati e i lavoratori che vi aderiscono più convintamente a far seguire alle dichiarazioni di principio una reale pratica ostruzionistica nei confronti della politica governativa. In altre parole, nelle scuole come nelle piazze, non dobbiamo smettere di pungolare e sollecitare i sindacati, affinché scendano sul piano della reale opposizione. Questa pratica di pressione dovrebbe diventare sistematica: non dimentichiamo che probabilmente CGIL, CISL e UIL non avrebbero dichiarato lo sciopero del 30 ottobre scorso, se quello del sindacalismo di base del 17 ottobre non avesse avuto un grande successo e se nelle assemblee territoriali i delegati dei sindacati confederali non avessero avvertito un generale clima di delusione e di rabbia verso il loro attendismo. Credo però che il lavoro dei comitati nelle scuole dovrebbe porsi come obiettivo, oltre che l’informazione, la pratica ostruzionistica: impedire, ad esempio, che si formino cattedre che superino le 18 ore; bloccare eventuali sperimentazioni “volontarie”, come quelle approvate l’anno scorso da molti Collegi docenti; far rispettare minuziosamente le norme sulla sicurezza, fino ad ottenere la chiusura delle scuole “fuorilegge”. Mi sembrano molto meno efficaci campagne di principio come le petizioni, il “10 pedagogico” o l’“io non do 5 in condotta”, che non impensieriscono il governo, limitandosi ad opporre alla sua demagogia una demagogia uguale e contraria. Anche il disegno di autoriforma della scuola, da attuarsi con gli studenti, sembra basarsi su un equivoco ed un’incomprensione. Il fraintendimento consiste nel pensare, ancora una volta demagogicamente, che gli studenti debbano e possano validamente contribuire alla riforma della scuola, senza avere però cognizioni disciplinari e didattiche comparabili con quelle dei docenti, che dovrebbero invece essere professionisti dell’istruzione. Comprendere questo fatto non significa rimanere sordi alle giuste istanze che possono provenire dagli studenti, ma riconoscere una divisione di ruoli che la scuola non può eliminare. L’incomprensione consiste nel non prendere atto della divisione e delle reciproche diffidenze esistenti, nelle scuole superiori, tra docenti da un lato, genitori e studenti dall’altro. È proprio questa distanza a costituire l’elemento specifico delle scuole secondarie, che le differenzia dalle primarie e mina intimamente la forza dei loro comitati misti docenti-ATA-genitori-studenti.

Se, negli istituti in cui lavoreranno, i membri del “3 ottobre” continueranno ad agire come lavoratori della scuola, sollevando problemi di carattere generale e cercando di impedire la piena realizzazione del progetto governativo, nelle strade e nelle piazze essi potrebbero agire anche come un gruppo di lavoratori che lottano per mantenere il posto di lavoro. La cornice naturale per questo aspetto della mobilitazione è il Coordinamento Precari Scuola, che ha consentito di superare il carattere locale della lotta. Il collegamento con altri gruppi di docenti, sparsi in tutta Italia, potrebbe dare maggiore visibilità ed efficacia alle nostre iniziative. Bisognerebbe pensare a forme di protesta clamorose e coordinate a livello nazionale, sulla base dell’esempio fornito dai lavoratori dell’INNSE, pur partendo dalla consapevolezza del fatto che, mentre gli operai sono stati tutti uniti nella lotta, nel nostro caso solo una piccola minoranza di insegnanti dovrebbe assumersi la responsabilità di battersi per i diritti di tutti.

Per quanto riguarda i rapporti con i lavoratori di altri settori, infine, non credo si possa improvvisare un’unità in modo estemporaneo. Per avere gli altri al nostro fianco, dovremmo avere la forza e la volontà di essere anche noi al loro fianco sistematicamente, in modo da creare una reale solidarietà reciproca.

S.B.

M.C.

Nessun commento:

Posta un commento