Gli schemi di regolamento dei Licei e degli Istituti tecnici
Gli schemi di regolamento relativi al riordino degli Istituti tecnici e dei Licei sono testi poco noti ai più ed ancor meno analizzati; lo stesso vale per quelli relativi agli Istituti professionali, che solo da pochi giorni sono in possesso di pochi accaniti “intenditori”. Sono poco noti perché non si vuole che lo siano (altro che “confronto tra le parti”), volendo il Governo ripercorrere la strada già sperimentata tante volte negli ultimi mesi: nascondere un progetto possibilmente fino alla sua definitiva approvazione.
Di fatto chi, come molti di noi, ha voluto criticare il progetto di “riforma” della scuola statale ha dovuto fare i conti alternativamente con quelli che obiettano che il problema non esiste (“sono solo voci!”) e con quelli che ti dicono che non si può fare più nulla (“ormai è legge!”). In molti casi si tratta delle stesse persone, semplicemente incrociate in tempi diversi.
Difficile se non impossibile è stato trovare, in questi mesi, qualcuno abbia voluto discutere e difendere coerentemente i provvedimenti ministeriali. Per lo più a noi critici è stato opposto un muro di gomma, tanto più frustrante quanto più i “sono solo voci” e gli “ormai è legge” hanno contagiato incolpevoli e ignari colleghi e tanti utili idioti. Spesso ho avuto la sensazione che l’attacco alla scuola pubblica e a noi che vi operiamo, tanto più se precari, stia assumendo caratteri di violenza tale che i più preferiscono tappare orecchie, naso e occhi, per non vedere avvicinarsi la tempesta. Così è potuto succedere che le bozze di regolamento abbiano intrapreso tranquillamente il loro iter senza che la maggioranza di coloro che “le subiranno” (e tra questi ci sono anche i ragazzi e le loro famiglie) ne abbiano preso coscienza.
Chi, come me, ha maturato un giudizio negativo su questi regolamenti sa anche che le possibilità di fermarli o almeno frenarli sono legate in primis alla divulgazione dei loro contenuti, una divulgazione non a caso tanto temuta.
Il commento agli schemi di regolamento per istituti tecnici e licei può però non essere semplice e può nascondere delle insidie; vale la pena quindi avanzare alcune considerazioni “di metodo”. Se immagino di visitare una mostra e di dover formulare un giudizio su un’opera esposta (anche nei musei migliori ne esistono di pessime…), il primo rischio che corro è di poter essere condizionato da un giudizio o da una guida, o semplicemente da poche righe lette in una brochure. Se non sono attrezzato per formulare un’analisi o se non mi armo di pazienza e di metodo posso facilmente essere portato fuori strada. L’ideale probabilmente è, se si tratta di un dipinto, guardare il quadro nella sua interezza, ad una certa distanza, e solo in seguito avvicinarmi di più per scoprirne man mano i dettagli tecnici e compositivi. Infine, dopo aver indagato ogni singolo elemento della composizione, tornerò a pormi ad una certa distanza per godere dell’unità ritrovata o, al contrario, per biasimare la fragilità dei contenuti e l’imperizia nell’esecuzione.
In queste settimane un numero crescente di colleghi, spesso molto preoccupati, hanno letto le bozze di regolamento, ma in diversi casi sono caduti in due errori opposti. Un po’ come l’osservatore sprovveduto del dipinto o si sono lasciati convincere dal “mercante d’arte”o si sono messi ad inseguire i dettagli, pure importanti, perdendo di vista l’insieme.
Al primo dei due errori bisogna essere geneticamente predisposti, ma è possibile cascarci se si dà troppo credito ad alcune affermazioni presenti nelle bozze di regolamento, non solo nelle relazioni illustrative, ma spesso anche negli stessi articoli di legge. Il legislatore, infatti, si auto-compiace spesso della propria opera e infarcisce i testi ministeriali di affermazioni del tipo “si potenzia l’Inglese” (ma anche la matematica, le scienze, l’italiano e via via tutto lo scibile umano) e “si perfezionano metodologie e strumenti”. Insomma stando a quanto scritto sembrerebbe davvero che si sia ottenuta una riduzione delle ore totali attraverso l’aumento di ogni singolo parziale (un miracolo dei pani e dei pesci in chiave tremontiana). Per quanto incredibile pare che in tanti ci credano davvero…
Anche noi “critici” però possiamo incorrere, a mio parere, in un errore uguale e contrario: cioè, guardando il quadro “da lontano”, convincerci che il suo grosso limite sia esclusivamente nella “volontà di fare cassa” e quindi nell’impoverimento complessivo dell’offerta formativa, in termine di riduzione del monte ore. Se invece ci avviciniamo di più e cominciamo ad indagare nel dettaglio i singoli articoli e, soprattutto, i quadri orari dei diversi indirizzi, scopriamo che queste bozze contengono qualcosa di più e di più grave di un semplice taglio “orizzontale” di spese e orari.
In questo caso l’avvertenza, ancor più utile, è non lasciarsi prendere dalla smania di guardare con la lente di ingrandimento perdendo di vista la composizione. È questo, infatti, l’errore più diffuso tra i colleghi, in particolare tra i precari, che nei quadri orari della Gelmini hanno cercato in primo luogo di leggere il destino della propria disciplina (atteggiamento perfettamente comprensibile), per poi spesso lasciarsi andare a critiche o scaramucce con i colleghi presumibilmente avvantaggiati dal ministro. Chiunque può verificare in rete come diversi siti del settore siano animati da vivaci dibattiti di “quelli di lingue” contro “quelli di matematica”, di questi ultimi contro “quelli di italiano” e così via. Sono dibattiti che non possono entusiasmarci e che chiaramente fanno il gioco di chi ci vuole proprio così: pronti all’ennesima guerra tra poveri.
Del resto si tratta di una discussione sterile: a ben guardare tutti i quadri orari, tranne i docenti di religione, che non hanno motivo di temere per il proprio futuro, non pare possibile trovare una sola disciplina che acquisti complessivamente ore. Si può invece tranquillamente dire che, pur essendo vero che alcune classi di concorso risulteranno più penalizzate di altre, nessun docente precario potrà sentirsi più vicino all’inserimento in ruolo grazie alla Gelmini, anzi…
È altrettanto evidente che questi quadri non contengono soltanto un attacco alle condizioni di vita del personale della scuola (in particolare quello precario), ma un complessivo impoverimento dell’offerta formativa e che implicano un indebolimento degli strumenti utili all’acquisizione di conoscenze e alla formazione della coscienza critica dei nostri alunni.
Il primo dato che può darsi per acquisito già da una prima visione d’insieme è quindi che gli “schemi di regolamento di licei e tecnici” prevedono, in modo non dissimile agli altri ordini di scuola, una generalizzata riduzione del monte ore. Questo consentirà di tagliare, a partire dal 2010-2011, 14.000 docenti nelle sole scuole superiori (senza licenziamenti, ma semplicemente non riconfermando i contratti di altrettanti precari e “giocando” sulla mobilità di un enorme numero di docenti di ruolo). Questi tagli si sommerebbero a quelli (circa 12.000 docenti delle superiori), approvati definitivamente dal governo il 27 febbraio e operativi già dal 2009-2010, dovuti all’aumento del numero di alunni per classe e alla riconduzione di tutte le cattedre a 18 ore.
Focalizzando meglio sarà però utile sottolineare che già dal punto di vista della revisione dei quadri orari esistono sostanziali differenze quantitative e qualitative tra la riforma dei Licei (predisposta da una commissione nominata dal governo attualmente in carica) e quella degli Istituti tecnici (frutto del lavoro di una commissione predisposta già da Fioroni e confermata dalla Gelmini).
È evidente che la riduzione del monte ore per i Licei è generalmente meno marcata che per i Tecnici, fatta eccezione per i Licei Artistici. Negli schemi di regolamento si afferma, anzi, che le 30 ore settimanali previste, in particolare per i Licei classici e scientifici, costituiscono un significativo aumento rispetto al passato, facendo però riferimento ai licei previsti dal DM 1/1/1952, con il Classico a 28 ore settimanali e lo Scientifico che vedeva un graduale passaggio dalle 25 ore al primo anno fino alle 30 dell’ultimo. I componenti della “commissione licei” riconoscono che dal ‘52 ad oggi si è avuto (grazie anche alle diverse sperimentazioni) un aumento medio di 5-6 ore settimanali (nei Licei Artistici si superano in molti casi le 40 ore), per poi aggiungere che l’orario dichiarato dalle Scuole sarebbe però “aleatorio”, perché i moduli orari sono spesso di 50 o 55 minuti. Vale la pena, in proposito, soffermarsi anche su alcune notazioni “di forma”, che hanno però anche notevoli risvolti “di sostanza”.
Il testo ministeriale, pur avendo la pretesa di diventare Legge dello Stato, sembra a tratti redatto con chiari intenti polemici. Il passaggio in questione recita testualmente: “Invece di 60 minuti, l’unità didattica è fatta durare, di regola, 50 o 55 minuti… Di fatto 34, e anche 36 ore, si riducono a meno di 30… Sarà opportuno richiamare l’attenzione dei dirigenti scolastici sulla corretta applicazione delle norme… al fine di prevenire e contrastare devastanti iniziative personalistiche.” Le affermazioni, partendo da circostanze previste per legge, legate per lo più alle esigenze di fruizione dei trasporti pubblici da parte degli alunni, contengono in un paio di righe un errore grossolano (36 moduli, anche se fossero tutti di 50 minuti, non possono equivalere a meno di 30 ore), una forzatura dialettica (non si comprende quali siano le “devastanti iniziative personalistiche”) e una anomalia giuridica (si formula una legge per raccomandare il rispetto di altre). Se, infatti, si ravvisano elementi di mancato rispetto della giurisprudenza vigente, allora si correggono le violazioni e si puniscono gli eventuali colpevoli. È invece aberrante la logica che vuole il legislatore impegnato a pensare un provvedimento che sia di monito per una intera categoria, perché ha notizia di alcuni insegnanti che “fanno la cresta” sui minuti di lezione.
I docenti, tanto più se precari e meridionali, hanno in questi mesi subito ogni tipo di insulti, che, anche quando confinati negli editoriali del TG4 e nelle affermazioni di rancorosi ministri con evidenti problemi di relazioni sociali, hanno comportato una perdita netta di credibilità con i propri alunni e quindi maggiori difficoltà nel creare un proficuo rapporto docente/discente. Con la “bozza di Regolamento per i Licei”, si assiste per la prima volta alla enunciazione delle “chiacchiere da bar dello sport” all’interno degli articoli di legge e ci si chiede quale modello didattico possa promuovere chi guarda alla classe docente come una categoria di inguaribili lavativi.
È probabilmente una novità anche l’affermazione che l’Italiano, la Storia, la Filosofia, l’Inglese e la Matematica sono “discipline fondamentali” per la cultura liceale, non solo perché crea una evidente gerarchia tra queste e quelle “secondarie” (anche in questo caso con evidenti devastanti effetti nella credibilità, di fronte ai propri alunni, di un docente “non fondamentale”), ma perché porta alla luce quella che è il vero asse portante di questa riforma: i Licei “dovranno essere sempre più licei”, e quindi avranno come naturale ed unico sbocco l’accesso all’università, dovendo preparare “la classe dirigente di domani”.
Come ha recentemente affermato Giorgio Giovannetti si mira ad “enfatizzare gli aspetti più tradizionali della licealità all’italiana: la presenza in tutti gli indirizzi del latino… la totale assenza di attività laboratoriali e tecnico-operative… la quasi totale assenza di discipline anche solo vagamente professionalizzanti… la sparizione del liceo-scientifico tecnologico”.
Anche il liceo linguistico e quello delle scienze umane avranno 30 ore settimanali, rispetto alle attuali 35 ore per il linguistico e alle 34 del socio-psico-pedagogico “Brocca”, e se nel primo caso va sottolineato che non è più previsto lo studio del diritto (e che diminuiscono le ore di scienze, latino e italiano), nel secondo è evidente il dimezzamento delle ore “di indirizzo”: pedagogia, psicologia e sociologia. Per il Liceo musicale e coreutico, che andrà a sostituire gli attuali Conservatori e le Accademie di danza, sono previste 32 ore settimanali di lezione.
Discorso a parte meriterebbero i Licei Artistici, e gli istituti d’arte che vi confluiranno, che, con 34 ore settimanali al primo biennio e 35 ore per gli altri tre anni, subiranno il taglio più significativo e gli sconvolgimenti più penalizzati, con perdite significative in ambito scientifico e la scomparsa dell’Educazione visiva, delle Discipline geometriche al “Figurativo” e del Diritto in tutti gli indirizzi (per ricomparire solo tra gli insegnamenti opzionali).
Vale la pena di sottolineare che gli insegnamenti opzionali, attivabili sulla base del POF, qui come negli Istituti tecnici, sono, questi sì, puramente “aleatori”, legati come sono alle disponibilità economiche e di organico delle singole istituzioni scolastiche. Chi abbia dubbi in proposito può osservare cosa sta accadendo in questi giorni alle elementari e alle medie e il credito pressoché nullo che stanno dando gli Uffici scolastici alle “libere scelte delle famiglie”.
Lo schema di regolamento per gli Istituti tecnici presenta, come si accennava, sostanziali differenze con quello dei Licei anche nella forma e nella filosofia di fondo. Si tratta, in un certo senso, della filosofia liberista e progressista propria del precedente governo, tanto progressista da richiamare a tratti alla memoria Adam Smith e la fiducia cieca nel potere salvifico del mondo della produzione. In realtà non si tratta nemmeno del migliore Smith, perché anche il filosofo scozzese sosteneva la necessità che lo Stato intervenisse, nell’istruzione pubblica, affinché si preservassero gli ambiti di studio non direttamente e immediatamente “produttivi”; al contrario la “commissione tecnici” non esita a tagliare pesantemente (molto più di quella “dei licei”) principalmente tutto quanto riguarda la “formazione culturale” degli studenti.
Si vuole evidentemente un tecnico che sappia fare il suo mestiere e tanto basta e avanza. Non è un caso, quindi, se una disciplina come Storia dell’Arte, solo per fare l’esempio più evidente, sparisca da tutti gli indirizzi, anche dagli istituti grafici e da quelli di moda, conservando una inutile presenza di un’ora a settimana nei soli istituti tecnici per il turismo.
Anche in questo caso, per capire il senso dell’operazione, ci possiamo far guidare da alcune notazioni “di forma” (che come sempre è anche sostanza). Leggendo la “relazione illustrativa” che introduce la bozza di riforma degli Istituti tecnici si è subito colpiti dall’insistenza con la quale si richiamano le esigenze del mondo del lavoro: una sorta di ossessione patologica porta l’aspirante legislatore a citarlo 11 volte in poche pagine (alle quali possiamo sommare le 5 volte in cui si richiama la necessità di andare incontro al mondo produttivo). Analogamente è ossessivo il richiamo alle indicazioni comunitarie e al “quadro europeo dei titoli e delle qualifiche” (EQF), che appare perfettamente in linea con la vulgata, anche questa progressista, che vuole che tutto ciò che “viene dall’Europa” sia buono e giusto in sé e che soprattutto abbia caratteri di ineluttabilità, e che quindi non sia possibile opporsi. È la logica, per chi ha la memoria corta, che ha portato i lavoratori non solo italiani ad accettare un oggettivo peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, nonché un significativo ridimensionamento delle proprie possibilità di contrattazione e di difesa, in nome di un domani radioso che appare molto lontano da venire.
Comunque sia, se è vero, come è vero, che la vera “resa” del mondo della scuola si avrà solo se e quando le scuole verranno trasformate in Fondazioni, con l’approvazione del disegno di “legge Aprea” (che non è oggetto di questo lavoro), è altrettanto vero che grossi passi in direzione di una “soggezione” del mondo dell’istruzione al mondo della produzione (in particolare, come si precisa nel testo di legge, della piccola e media impresa) si fanno già con questo schema di regolamento.
All’articolo 6 si sancisce il principio che possano far parte della commissione d’esame di Stato anche “esperti del mondo economico e produttivo”. All’articolo 7 si prevede l’istituzione di Comitato nazionale per l’istruzione tecnica e professionale, composto anche da rappresentanti del mondo del lavoro e delle professioni, con il compito di aggiornare costantemente gli obiettivi formativi degli Istituti tecnici in relazione alle mutevoli esigenze del mondo economico e della produzione. Si potranno inoltre stipulare contratti con esperti del mondo del lavoro e delle professioni (art. 5). Si vuole inoltre che all’interno dei singoli Istituti operi un Comitato tecnico-scientifico (art. 5) composto in misura paritetica da docenti e esperti del mondo del lavoro che avrà funzioni consultive e di proposta per l’organizzazione degli spazi di autonomia e di flessibilità. Questi spazi passano da un massimo del 20% al primo biennio fino ad un massimo del 35% all’ultimo anno: possono quindi consentire, almeno apparentemente, una notevole autonomia di scelta ai singoli Istituti, se non fosse che gli insegnamenti tra i quali si potrà scegliere saranno limitati a quelli indicati in un apposito elenco nazionale (art. 8) e dovranno rispondere a “precise e documentate esigenze del mondo del lavoro e delle professioni”. Vale la pena ribadire che questa scelta, che pure dovrebbe essere legata a valutazioni di tipo didattico, verrà operata da una commissione composta per il 50% da rappresentanti del mondo produttivo (Confindustria, Confcommercio, ecc…) e che probabilmente i più saggi tra i docenti preferiranno attenersi ai programmi ministeriali senza avvalersi di spazi di flessibilità, per non compromettere ulteriormente il quadro.
Il quadro orario, così come proposto, si presenta tutt’altro che tranquillizzante: le 32 ore settimanali implicano, un taglio notevole, che in pratica supera sempre le 3 ore settimanali previste dal piano programmatico voluto la scorsa estate da Tremonti e Brunetta, tanto da far pensare che i 14.000 tagli di cui si è detto siano largamente sottostimati (si ottenevano semplicemente moltiplicando le 84.000 classi delle superiori per 3 ore e dividendo il risultato per 18 ore).
Ancora una volta, però, il problema non è solo quantitativo, ma anche qualitativo, per la logica “produttivista” che è alla base del piano, alla quale si è accennato, e per come questo schema di regolamento rischia di integrarsi con la riforma del primo ciclo di istruzione (elementari e medie), con quella dei Licei e con quello degli Istituti professionali, che ha appena cominciato il suo iter legislativo.
Se è legittimo affermare, infatti, che “i Licei diventano sempre più Licei”, non altrettanto facile è dire che “i Tecnici diventano sempre più Tecnici” o almeno in questo caso si rende necessaria qualche avvertenza in più. Vero è, infatti, che si taglia notevolmente sulle materie non immediatamente “monetizzabili”, come la Storia dell’Arte e la Filosofia, ma è altrettanto vero che questi tagli non liberano spazi per le attività laboratoriali. Anche se nella relazione introduttiva si afferma esattamente il contrario, le ore di laboratorio vengono tagliate in misura ancora maggiore rispetto alle discipline “di studio” e vengono inoltre rese meno efficaci per la riduzione e la soppressione delle compresenze, che sono essenziali se si vogliono condurre utilmente delle attività operative.
Gli Istituti tecnici del futuro, divisi in due soli settori e in 11 indirizzi, due per il settore economico e nove per quello tecnologico (oggi esistono 10 settori e 39 indirizzi), conseguiranno forse l’obiettivo di semplificare il quadro dell’offerta formativa (per altro cancellando interessanti sperimentazioni senza nemmeno motivare la scelta), ma non certo quello di ridurre il numero di discipline all’interno del singolo indirizzo. Spesso, infatti, ne compaiono di nuove ed assolutamente “imprevedibili”, il più delle volte di “natura economica”, come la “gestione dei processi di produzione” o le “teorie della comunicazione” per i tecnici grafici o il “marketing” per i tecnici agrari o per quelli della moda. La sensazione è che il Tecnico che si intende formare con questo progetto non sia quindi il semplice operatore, abile “nel fare”, quanto piuttosto una figura intermedia: programmatore, progettista, caposquadra, impiegato o funzionario che sia. Alla formazione del semplice esecutore di ordini penseranno evidentemente altri tipi di scuola, non solo e non tanto gli Istituti professionali statali, quanto principalmente i “percorsi professionalizzanti” di tre anni gestiti verosimilmente dalle singole Regioni mediante i Centri di Formazione Professionale.
Se, dopo queste breve analisi, proviamo ad “allontanarci di nuovo dal quadro” per darne finalmente una compiuta valutazione complessiva, non possiamo che sottolineare il forte carattere classista di questo progetto di “riforma”.
La scuola non è stata mai, né poteva esserlo, il luogo dove è possibile superare fino in fondo le distanze tra i diversi ceti sociali, ma certo è che con questo governo si assiste ad un tentativo di accelerazione verso la definitiva cristallizzazione delle stesse: la scuola elementare e media statale sarà sempre più povera e per poveri (con una privata sempre più appetibile per i ricchi), e nella scuola superiore saranno cancellate anche le più remote possibilità di “contaminazioni” tra le classi, quali si potevano avere in un istituto ibrido come lo scientifico-tecnologico.
Per tutto questo, e non solo per la legittima difesa delle nostre condizioni di vita e di lavoro, dovremo contrastare con forza questo tentativo, con la consapevolezza piena che nessuna “opposizione parlamentare” si renderà disponibile ad aiutarci, perché è da quel ramo del Parlamento, ben rappresentato dai Colaninno e dalle Binetti, ma non solo, che si sono mossi i primi passi in direzione dello smantellamento della scuola pubblica e della genuflessione di fronte agli interessi del meraviglioso mondo della produzione.
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