20 febbraio 2009

PRESIDIO PRECARI DELLA SCUOLA A MILANO IL 4 MARZO ORE 15.30

MERCOLEDI 4 MARZO ALLE 15.30
DAVANTI AL PROVVEDITORATO DI MILANO in via Ripamonti PRESIDIO DEI PRECARI DELLA SCUOLA
ORGANIZZATO DAL COORDINAMENTO 3OTTOBRE.
TUTTO IL PERSONALE DELLA SCUOLA, GENITORI E STUDENTI E TUTTI I CITTADINI SONO INVITATI A PARTECIPARE IN DIFESA DELLA SCUOLA PUBBLICA.

18 febbraio 2009

LA DERIVA PARITARIA DELLA SCUOLA PUBBLICA


LA DERIVA PARITARIA DELLA SCUOLA PUBBLICA

Se il disegno di Legge Aprea diventerà legge della Repubblica, la scuola pubblica italiana si avvierà verso una deriva paritaria. In nome della “libertà di scelta delle famiglie” si andrà ad intaccare seriamente il diritto all’istruzione attraverso un’interpretazione liberal del dovere all’istruzione, inteso, nel nuovo linguaggio del ddl Aprea, come libera scelta sul mercato dell’offerta formativa. Alla violenza asettica del linguaggio aziendalista in ambito scolastico siamo ormai abituati dai tempi dell’autonomia, e forse anche un po’ assuefatti, tanto che le “idee” espresse dalla Fondazione Agnelli sulle modalità di reclutamento degli insegnanti o sul riordino degli istituti professionali vengono discusse pubblicamente con un certo interesse.

Tuttavia, con il disegno Aprea si compie un passo decisivo verso la trasformazione delle scuole pubbliche in istituti privati finanziati dallo Stato, oltre che da eventuali partner privati. Piena realizzazione dell’autonomia scolastica, libertà di scelta delle famiglie, valutazione e gerarchizzazione della professione docente, riforma degli organi collegiali, partner privati nei consigli di amministrazione delle scuole-fondazioni. L’asse portante di tutto il disegno non è il principio di sussidiarietà, così come recita il testo del ddl, ma il principio della competizione come unico e miracoloso dispositivo di innalzamento degli standard qualitativi dell’ offerta formativa: competizione tra gli istituti in base alla libera scelta delle famiglie “che spostano i finanziamenti in base alle loro scelte”; competizione tra i docenti, attraverso l’individuazione di una carriera in tre livelli “fondata su modalità e su criteri di valutazione basati sul merito professionale”. Questi gli ingredienti principali, la mano invisibile del mercato dell’offerta formativa dovrebbe fare il resto. Le parole “autonomia” e “libertà di scelta” toccano nel profondo le coscienze di qualsiasi libero cittadino, di una qualsiasi libera democrazia di un qualsiasi Stato fondato su principi liberali; tuttavia la loro declinazione economica secondo la più classica vulgata liberista, soprattutto in un ambito così delicato come il diritto-dovere all’istruzione, necessita delle serie precisazioni.

Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale e abbia letto anche un semplice bigino della storia economica degli ultimi due secoli, potrà convenire con noi nel ritenere quantomeno sospette e favolose le tanto decantate virtù benefiche della mano invisibile dei mercati. Tuttavia, ammesso e non concesso che nel vasto campo dei beni di consumo il mercato, quindi la libera competizione, possa avere delle conseguenze benefiche per il consumatore, nel caso del diritto-dovere all’istruzione, questo stesso mercato avrà come conseguenza generale un effetto contrario a quello sperato, proprio per il fatto che dovrà andare incontro alle scelte delle famiglie, quindi ai loro bisogni. Per evitare accuse di apriorismo o di ideologismo antiliberista, per corroborare la nostra ipotesi, ci basta dare uno sguardo veloce al livello di preparazione degli studenti delle scuole paritarie, il mercato delle quali può rappresentare un campione significativo di quello che sarà il futuro della scuola "pubblica-privata". Le scuole private paritarie sono in competizione tra loro. Da qualche anno le famiglie possono usufruire di un bonus per esercitare la loro libera scelta all’istruzione e i costi delle rette sono generalmente alti; quest’ultimo fatto ci fa pensare che gli studenti provengano da famiglie abbienti, quindi presumibilmente appartenenti ad un ceto medio-alto, anche culturalmente. Bene, esistono due dati significativi che ci permettono di capire il funzionamento della mano invisibile del mercato nel campo dell’istruzione e le conseguenze dell’armonizzazione dei bisogni delle famiglie con l’offerta formativa degli istituti. In primo luogo, tutte le scuole paritarie, in particolare quelle superiori, hanno un andamento a piramide rovesciata (aumento degli iscritti dalle classi prime alle ultime): a mano a mano che si procede nel corso di studi e la meta del diploma si fa sempre più vicina ma, per chi ha difficoltà, sempre più lontana, le scelte di molte famiglie italiane si spostano dalla scuola pubblica alla privata: i genitori sono disposti a pagare di più a fronte di una garanzia maggiore di diplomarsi in tempi ragionevoli. Secondo dato - molto più significativo perché riguarda il rapporto interno tra le scuole private e non il confronto tra pubblico e privato - le scuole private che hanno maggiore richiesta di iscrizioni sono anche quelle “notoriamente” più facili. Il risultato generale è che gli istituti paritari, per poter essere competitivi sul mercato, devono abbassare il livello di difficoltà e di valutazione. Questa situazione degenerativa non ha limiti, proprio perché è soggetta alle dinamiche del mercato; in questo modo si può arrivare alle situazioni limite, frequentissime nel nostro Paese tanto al Sud quanto al Nord, dei famosi diplomifici in cui l’unica difficoltà per il raggiungimento di un diploma è l’esborso di qualche migliaia di euro. Non abbiamo ancora parlato – e volutamente - di qualità dell’insegnamento e nemmeno di offerta formativa, ma solo di “livello di difficoltà”. Infatti, cosa significa “qualità dell’insegnamento”? Cosa significa “offerta formativa”? Ma soprattutto chi determina questi parametri ? Il Ministero della Pubblica Istruzione o la libera scelta delle famiglie? Su questi punti bisogna essere tanto onesti quanto fare considerazioni molto semplici, a costo di dire qualcosa di politicamente scorretto. Nella “qualità dell’insegnamento” e “nell’offerta formativa” rientra anche la “fatica di studiare”? Fatica: questa parola così antipatica e così poco moderna - così poco cool - una parola che qualsiasi pubblicitario ingaggiato da un qualsiasi volenteroso dirigente scolastico per pubblicizzare la “sua” nuova scuola-fondazione penserebbe subito di cancellare. La famiglia media italiana alla quale la scuola-fondazione dovrebbe rivolgersi per intercettare la sua clientela, quindi aggiudicarsi una maggiore “quota capitaria”, quali esigenze ha? Fare studiare i figli o “fargli prendere un diploma”? E tuttavia, e molto semplicemente, il punto è proprio questo: se l’istruzione fosse solo un diritto non ci sarebbe nessun problema, ma è anche un dovere e, per ora, le forme e modalità di adempimento di tale obbligo sono stabilite per legge e non in base alla libera scelta delle famiglie. Se il dovere all’istruzione rimane qualcosa di regolato per legge, secondo canoni ben definiti e soggetto a regole e controlli uniformi in tutte le scuole della Repubblica, allora anche il diritto sarà tale; se invece l’adempimento di quest’obbligo avverrà secondo le libere leggi del mercato dell’offerta formativa, allora anche l’esercizio del diritto all’istruzione sarà irrimediabimente soggetto alle fluttuazioni delle offerte sul mercato. Il circolo è vizioso. Infatti un abbassamento qualitativo generale delle possibilità di istruzione determina anche un deficit nella possibilità di esercitare tale diritto: ci saranno, nella squalificazione generale degli istituti scolastici pubblici-privati, alcuni istituti d’elìte, seri e responsabili, nei quali alta qualità, selezione, difficoltà e ampia offerta formativa riusciranno ad armonizzarsi quasi per incanto; ma per iscriversi a questi sarà necessario pagare una retta molto alta.
Il panorama delle scuole superiori, nella fase successiva all’adempimento dell’obbligo, ovviamente complica in negativo l’intero circolo, perché in esse rimane solo il diritto e viene meno il dovere, quindi l’esposizione alle logiche di mercato è maggiore.

Due ultime considerazioni, una di carattere generale e una particolare, riguardo la situazione specifica del nostro Paese. In quest’operazione di slittamento dal pubblico al privato nel campo dell’istruzione, si può vedere un vero e proprio mutamento del rapporto tra cittadino e Stato, per quanto riguarda il diritto/dovere all’istruzione. Lo slittamento di cui sopra prende la forma di un passaggio da una dimensione giuridico-politico nel rapporto cittadino-Stato, nell’esercizio del diritto e nell’adempimento dell’obbligo all’istruzione, ad una dimensione economica in cui il cittadino si fa consumatore e lo Stato “garante” dell’erogazione di un servizio. Il rapporto politico cittadino-Stato è da intendersi in senso eminente: la scuola pubblica come istituzione finalizzata alla formazione del cittadino, nell’interesse sia della società, sia del cittadino. La qualità dell’insegnamento in questo caso non può essere scissa dall’ individuazione di standard di difficoltà relativamente alti per gli studenti – proprio perché è interesse della società in generale avere cittadini “preparati”. Al contrario, il rapporto economico consumatore-erogatore di servizi salta pienamente la dimensione politica e riduce l’istruzione a prodotto accessibile in varie forme sul vasto mercato dell’offerta formativa e con modalità scelte dal consumatore stesso, il quale determina, come sempre, gli andamenti del mercato. In questo caso non c’è nessun interesse alla definizione di standard uniformi di preparazione, perché la relazione scuola-studente si ridurrebbe ad una mera relazione fra ente di servizi – cliente. Il caso limite al quale porterà questa seconda opzione – caso peraltro già annunciato dal Ministro Gelmini in più occasioni – è la assoluta personalizzazione dello stesso percorso formativo, secondo il quale il singolo studente può decidere quali materie seguire e quali no, per raggiungere il pacchetto di crediti necessari a raggiungere la meta finale; pacchetto in cui un corso di bridge può valere tanto quanto un corso di fisica quantistica.

La seconda considerazione riguarda il nostro desolante quadro nazionale. Quali effetti avrà un’istruzione pubblica-privata-balcanizzata per il tessuto culturale degli italiani ? Rinunciare ad un’ istruzione pubblica intesa come cardine fondamentale del rapporto tra cittadino e Stato, per la specificità del nostro Paese e della nostra tradizione culturale, significa rinunciare definitivamente ad avere una cultura condivisa. E per la nostra storia unitaria, mai veramente compiuta e per buona parte fondata su di una dimensione culturale, nel senso alto del termine (di quella cultura che si studia sui banchi di scuola) - non nell’accezione, peraltro altrettanto nobile, antropologica del termine-, sarebbe sicuramente un ennesimo slittamento verso una deriva balcanizzante se non definitivamente secessionista. In secondo luogo è forse utile ricordare che un paese “con la borghesia più ignorante d’Europa e il popolo più analfabeta” (da Ricotta di Pasolini ci separano poco meno di due generazioni), non può proprio permettersi di abbassare gli standard qualitativi di preparazione culturale dei propri cittadini. Se fosse solo un problema di far risultare sulla carta a fini statistici un numero di diplomati maggiore, come è successo recentemente per le facili lauree triennali, ci sono strade molto più brevi da percorrere.

In tutto questo marasma, quel problemino che da almeno una ventina d’anni viene chiamato “crisi della scuola” o “crisi dell’educazione/istruzione” come sintomo cronico della crisi generale dell’enciclopedia dei saperi della tradizione culturale dell’Occidente e delle possibilità della sua trasmissione, non viene minimamente affrontato né da chi ha responsabilità di governo né da chi ha responsabilità intellettuali nel mondo dei media.

Emanuele Rainone



11 febbraio 2009

19 FEBBRAIO: FESTA CONTRO I TAGLI ALLA SCUOLA, IL PRECARIATO, IL DISEGNO APREA



FESTA A MILANO : NO 133

presso il negozio civico ChiamaMilano Largo Corsia dei Servi (mm S.Babila)
19 Febbraio dalle 20.30 alle 23.30
siete tutti invitati!

7 febbraio 2009

SINTESI DEL DISEGNO DI LEGGE APREA

PUNTI PIU’ IMPORTANTI INSERITI NELLA PROPOSTA DI LEGGE N.953 DEL DEPUTATO VALENTINA APREA.
Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti.
Presentata il 12 Maggio 2008

OBIETTIVO PRINCIPALE DELLA PROPOSTA DI LEGGE
Con la presente proposta di legge si intende proporre un modello che punti a trasformare radicalmente il governo delle istituzioni scolastiche nella direzione di un rafforzamento degli organi di governo interni alle stesse istituzioni e della distinzione dagli organi di livello politico e amministrativo dell’intero sistema.

FINALITA’ DELL’INTERO DISEGNO
La responsabilizzazione professionale dei dirigenti e dei docenti. Realizzazione di un sistema decentrato imperniato sull’autonomia

ART. 1.
(Governo delle istituzioni scolastiche)
Al governo delle istituzioni scolastiche concorrono il dirigente scolastico, i docenti, i genitori, gli alunni, i rappresentanti degli enti locali i rappresentanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi .

ART. 2. FONDAZIONE (PRIVATI NELLE SCUOLE)
(Trasformazione delle istituzioni scolastiche in fondazioni)
Ogni istituzione scolastica può costituirsi in fondazione, con la possibilità di avere partner che ne sostengano l’attività, che partecipino ai suoi organi di governo. I partner previsti possono essere enti pubblici e privati, altre fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni non profit.

ART. 3.
(Organi delle istituzioni scolastiche)
1. Gli organi delle istituzioni scolastiche sono: il dirigente scolastico; il consiglio di amministrazione il collegio dei docenti gli organi di valutazione collegiale degli alunni il nucleo di valutazione
IL COSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE AL POSTO DEL CONSIGLIO DI ISTITUTO

ART. 5.
(Consiglio di amministrazione).
1. Il consiglio di amministrazione, nei limiti delle disponibilità di bilancio e nel rispetto delle scelte didattiche definite dal collegio dei docenti, ha compiti di indirizzo generale dell’attività di istruzione scolastica . Il consiglio di amministrazione dura in carica tre anni scolastici ed è rinnovato entro il 30 settembre successivo alla sua scadenza. Composizione: max. 11 membri (non specificata nel dettaglio la composizione, garantita presenza insegnanti e genitori)

ART. 8.
(Organi di valutazione collegiale degli alunni).
1. I docenti, nell’esercizio della propria funzione, valutano in sede collegiale i livelli di apprendimento degli alunni, periodicamente e alla fine dell’anno scolastico, e ne certificano le competenze in uscita

ART. 10.
(Nuclei di valutazione del funzionamento dell’istituto).
Ciascuna istituzione scolastica costituisce un nucleo di valutazione dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico, composto da docenti esperti

ART. 11.
(Decentralizzazione).
trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessari per l’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti alle regioni e agli enti locali nell’ambito del sistema educativo di istruzione e di formazione attribuisce le risorse finanziarie pubbliche disponibili alle istituzioni scolastiche accreditate, sulla base del criterio principale della « quota capitaria», individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica

STATO GIURIDICO, MODALITA` DI FORMAZIONE INIZIALE E RECLUTAMENTO DEI DOCENTI

ART. 12.
(Finalita`).
La funzione docente è rivolta prioritariamente a educare i giovani all’autonomia personale e alla responsabilità, nonché a perseguire, per ogni allievo, idonei e certificati livelli di competenza culturale,tecnica, scientifica e professionale, nel rispetto delle differenze individuali e delle singole personalità . L’assolvimento di tali compiti, in collaborazione con la famiglia di ciascun allievo, e i relativi risultati educativi costituiscono l’oggetto della specifica responsabilità. professionale del docente. QUINDI EDUCARE (LA PAROLA ISTRUIRE E’ SPARITA: AVREMO UN MINISTERO DELLA PUBBLICA EDUCAZIONE?)

ART. 13.
(Percorsi di formazione iniziale dei docenti).
1. I percorsi di formazione iniziale dei docenti del sistema educativo di istruzione nazionale sono svolti nei corsi di laurea magistrale e nei corsi accademici di secondo livello

ART. 14.
(Albo regionale).
Coloro che hanno conseguito la laurea magistrale o il diploma accademico di secondo livello e l’abilitazione all’insegnamento, sono iscritti, sulla base del voto conseguito nell’esame di Stato abilitante, in un apposito albo regionale, istituito presso l’ufficio scolastico regionale,

ART. 15. (LA VIA CRUCIS DEL DOCENTE )
(Contratto di inserimento formativo al lavoro).
Coloro che hanno conseguito l’abilitazione svolgono un anno di applicazione, attraverso un apposito contratto di inserimento formativo al lavoro. Concluso l’anno di applicazione, il docente discute dinanzi alla commissione di valutazione , una relazione sulle esperienze e sulle attività svolte nel medesimo anno e adeguatamente documentate. La discussione si conclude con la formulazione di un giudizio e con l’attribuzione di un punteggio. Il possesso dell’abilitazione all’insegnamento, attestato dall’iscrizione nell’albo regionale di cui costituisce, unitamente alla valutazione positiva dell’anno di applicazione svolto, requisito esclusivo per l’ammissione ai concorsi per docenti, che sono banditi dalle istituzioni scolastiche statali con cadenza almeno triennale.

ART. 17.
(Articolazione della professione docente).
La professione docente è articolata nei tre distinti livelli di docente iniziale, docente ordinario e docente esperto, cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata L’attività del personale appartenente ai livelli di docente Iniziale e di docente ordinario è soggetta a una valutazione periodica, effettuata da un’apposita commissione di valutazione, in ordine a: a) l’efficacia dell’azione didattica e formativa b) l’impegno professionale nella progettazione e nell’attuazione del piano dell’offerta formativa c) il contributo fornito all’attività
complessiva dell’istituzione scolastica o formativa d) i titoli professionali acquisiti in servizio.

LE VALUTAZIONI (IL DIRIGENTE, TRE SAGGI E UN ESTERNO DECIDONO DELLA CARRIERA DI OGNI DOCENTE)
Le valutazioni periodiche costituiscono credito professionale documentato utilizzabile ai fini della progressione di carriera e sono riportate nel portfolio personale del docente. La commissione di valutazione è presieduta dal dirigente dell’istituzione scolastica o formativa, è composta da tre docenti esperti e da un rappresentante designato a livello regionale dall’organismo tecnico rappresentativo. La commissione è rinnovata, di norma, ogni cinque anni. L’avanzamento dal livello di docente iniziale a quello di docente ordinario avviene, a domanda, a seguito di selezione per soli titoli effettuata da apposite commissioni. L’avanzamento dal livello di docente ordinario a quello di docente esperto avviene, a domanda, mediante formazione e concorso

ART. 22.
(Contrattazione, area contrattuale autonoma e rappresentanza regionale sindacale unitaria d’area)
.è istituita la rappresentanza regionale sindacale unitaria d’area, Composta esclusivamente da rappresentanti sindacali dell’area dei docenti . Conseguentemente è soppressa la rappresentanza sindacale unitaria dell’istituzione scolastica.
VIA I SINDACATI DALLA SCUOLA
Emanuele (Itis Marie Curie)

4 febbraio 2009

MILANO 2009: CULTURA DOVE SEI?

Txt: Bertram Niessen e Marco Mancuso da Digimag 41 - Febbraio 09
http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1352

Bertram Niessen

Milano è una città avara. Questo si sa e si è sempre saputo. Capitale dell'industria, dei dané, della produttività. Ma per lungo tempo Milano è stata anche qualcos'altro.Come tutte le grandi città industriali, per lungo tempo ha coltivato nei suoi quartieri popolari le culture di strada degli immigrati, con tutti i conflitti che queste si portano dietro. Allo stesso tempo, è stata la città della borghesia colta, delle case editrici, dei quotidiani, della grafica e, per un certo periodo, dell'arte. Poi ad un certo punto qualcosa si è spezzato. Nei vorticosi processi di riorganizzazione sociale seguiti alla fine dell'economia fordista, Milano ha cercato di costruirsi un'immagine di città cosmopolita, aperta alle nuove tendenze ed anzi capace di innovare radicalmente nei campi della moda e del design. Secondo molti è stato lì che Milano ha perso la sua anima, nel gorgo di fashion, cocaina e corruzione avviatosi negli anni '80. E' difficile giudicare, capire se veramente esisteva qualcosa di autentico che poi è andato distrutto. Quello che invece è facile vedere è come Milano a un certo punto sia entrata in rotta di collisione con sé stessa, accecata dalla cultura dell'immagine e della televisione. In un panorama culturale sempre più desolante, dove ogni luogo di resistenza legato alle tradizioni dei vecchi quartieri è stato programmaticamente smantellato e sostituito con fast-food o negozi di grandi marchi internazionali, Milano ha perso il senso di sé, e l'immagine costruita da pochi a beneficio di pochi si è imposta su tutto il territorio urbano, come se le poche centinaia di metri quadri di via Montenapoleone e dei quartieri della moda riassumessero una città con un milione e trecento mila abitanti, con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. L'elemento forse più agghiacciante di tutto ciò è che questo processo di sistematico impoverimento della qualità della vita, è stato più volte celebrato dai milanesi. Sempre più persi in una città, in un paese ed in un mondo di cui non riescono a comprendere le dinamiche, gli abitanti di questa triste distesa di cemento hanno fatto a gara per vendere pezzi delle propri libertà individuali e collettive in cambio di sicurezza. Sicurezza. La parola magica , quello che tutti sembrano cercare; ma è la ricerca stessa della sicurezza che uccide. Gli spazi urbani sono sempre più vuoti, sempre meno partecipati, e i milanesi si trovano sempre più soli. E sempre più insicuri. Gli effetti di queste dinamiche sono innumerevoli e, purtroppo, spesso di lunga durata. Quello che vorrei condividere con i lettori di Digicult, invece, è una piccola riflessione sul rapporto tra l'ossessione per la sicurezza e le pratiche e discipline che mensilmente vengono trattate su queste pagine. Nel processo di ingrigimento che ha colpito la città negli ultimi decenni, tre sono gli aspetti che sono cresciuti in modo particolare: ignoranza, monotonia, intolleranza. Innanzitutto, si è avuta una costante riduzione dell'attenzione da parte delle istituzioni culturali verso forme di cultura alternative e dal basso; se alcune di loro sono state in grado di fare un buon lavoro grazie alle fatiche ed alla determinazione di singoli professionisti, sono mancate in modo drammatico la volontà e la capacità di fornire un indirizzo ed un coordinamento a queste attività. L'effetto perverso di questo lassismo è l'annullamento, sul lungo periodo, di ciò che di buono è stato fatto dai pochi. In secondo luogo, abbiamo assistito ad un costante appello ai valori tradizionali ed al senso di omogeneità e appartenenza; è come se gli abitanti sempre più anziani di questa città sempre più vecchia, si fossero dimenticati che i successi che hanno conosciuto in gioventù sono stati spesso connessi alla mescolanza, all'incrocio tra entusiasmi e differenze provenienti da parti d'Italia diverse. Infine, il tessuto sociale di Milano è divenuto sempre meno capace di gestire i conflitti, dimenticando che una società senza conflitti non è assolutamente possibile. In questo modo, ogni minima forma di deviazione dagli standard e dalle medie è divenuta un affronto all'integrità stessa della città, e tutto quello che prima andava sotto l'etichetta di “inciviltà” adesso è divenuto “crimine”. E, soprattutto, è divenuto criminale mostrare al resto della città la necessità di un'alterità, il bisogno (che è prima esistenziale che politico) di codici culturali diversi rispetto a quelli dominanti. La bandiera sventolata dai paladini della sicurezza è quella della legalità: “non si può tollerare l'abusivismo”, ha tuonato il sindaco Moratti. Qualsiasi studente del secondo anno di sociologia sarebbe in grado di spiegare al sindaco che una società non può esistere senza spazi di liminalità, aree grigi, codici ambigui fatti di penombre. Perché, e questa è la cosa più grave, una città che gestisce le sue politiche sociali, e quindi culturali, sull'equazione tra devianza e criminalità è una città che si avvia a morire. Milano vuole essere una città creativa. E l'amministrazione è convinta che per essere una città creativa sia sufficiente avere un numero adeguato di lavoratori in determinati settori professionali. Questo non basta, ed è sotto gli occhi di tutti. Non c'è creatività senza innovazione sociale, e non c'è innovazione sociale senza sperimentazione. Milano ha un bisogno vitale di spazi informali. Milano ha bisogno dell'abusivismo. Il rapporto tra new media e Centri Sociali in Italia e a Milano è sempre stato strettissimo, molto più di quello che è accaduto in altri paesi. Partendo dal mondo delle BBS e del cyberpunk degli anni '80, passando per le esperienze di ECN e degli Hacklab ed approdando alle innumerevoli sperimentazioni artistiche collegate alla musica, spesso i Centri Sociali sono stati gli unici luoghi abbastanza aperti da permettere a chi voleva un rapporto diverso con la tecnologia di provare, riuscire, fallire. Non voglio dire che questo rapporto sia sempre stato facile. Sono piccole storie personali di entusiasmi, conflitti, illusioni e disillusioni. Ma se nelle altre grandi città europee, magari soffrendo e penando, i fondi per festival, spazi espositivi sono stati comunque messi a disposizione dalle amministrazioni locali, Milano ha vissuto una storia fatta di situazioni collaborative portate avanti in spazi occupati. In spazi abusivi. In spazi di sperimentazione e di innovazione sociale. Cancellare questi spazi vuol dire cancellare una delle poche istituzioni culturali che funzionano in città. E le conseguenze di questa ennesimo impoverimento del patrimonio collettivo ricadranno su tutti i milanesi, per un periodo talmente lungo che è troppo doloroso da immaginare Marco MancusoRiprendo spunto da una prima lettera di protesta che ho scritto dalle pagine di Digicult il giorno stesso dello sgombero di Cox18 a Milano, come testimonianza di quello che è accaduto a Milano nel corso degli ultimi dieci giorni e come monito a me stesso per non cadere mai nell'inedia e nella pietistica rassegnazione di una situazione culturale e sociale ormai in piena emergenza Per tutti coloro che abitano a Milano, che amano e odiano questa città e che, da ogni parte d'Italia, comunque riconoscono a Cox18 e all'Archivio Calusca di Primo Moroni un retaggio politico e culturale importante per tutte le forme di controcultura e attivisimo nel nostro paese, lo scorso Giovedì 22 Gennaio è stato un giorno infinitamente triste. All'alba, in un modo subdolo, coatto, infimo, senza alcun avvertimento, andando contro ogni forma di legalità che prevedeva l'attesa di un emendamento giudiziario ufficiale in seguito alla causa di sgombero in corso, le forze dell'ordine sono entrate nel centro sociale occupato autogestito Cox18 e nelle stanze della Calusca City Lights e dell'Arhivio Moroni, occupando gli spazi del centro a quell'ora del mattino completamente vuote. A differenza di altre realtà controculturali storiche dell'area milanese, Conchetta era ed è insieme a poche altre esperienze, un luogo di memoria, una testimonianza forse di un'epoca che non c'è più, uno spazio dove poter liberamente proporre idee e appuntamenti culturali, un posto di ricordi personali e di amicizie, la sede del ricchissimo Archivio Moroni, l'ultimo vero anti-eroe di questa città, uno degli ultimi che l'ha amata ad alta voce e che ha compiuto con la Calusca un'opera di collezione di testi e video la cui eventuale confisca costituirebbe una delle più gravi perdite di materiale audiovisivo che i movimenti controculturali di questo paese potrebbero mai subire Lo sgombero di Conchetta, per le modalità con cui è stato effettuato, per le motivazioni politiche e sociali che lo accompagnano, costuitisce forse l'ultimo, definitivo, atto di furto e di offesa non solo ai giovani della controcultura milanese, ma a tutti coloro che nel nostro paese amano avere voce libera, riconoscersi in un luogo, in una serie di iniziative, per tutti coloro che non vogliono fuggire dalla propria storia ma resistere, per tutti coloro da Roma a Torino, da Venezia a Palermo che, sono sicuro, sentono sotto pelle soffiare il vento della repressione, della perdita della propria identità, dell'offesa gratuita e arrogante da parte delle Istituzioni, di qualsiasi Istituzione, quella aggressiva che reprime e quella laida che tace. I giorni successivi allo sgombero sono stati, da un certo punto di vista, un momento storico importante da vivere a Milano, un posto dove essere per sentire sulla pelle il malcontento di un'intera generazione di giovani, studenti, professionisti, creativi, artisti, intellettuali. Per chi l'ha visto e per chi non c'era. Dalle prime 30 persone accorse ancora assonnate e sconvolte in Via Conchetta 18, il numero di giovani e anziani è aumentato progressivamente per fare sentire a propria voce: ho assistito al primo presidio, al blocco della circonvallazione di Viale Tibaldi, al corteo itinerante per le strade del quartiere da Porta Genova alla Darsena: tutti luoghi storici della controcultura milanese, leggete La Luna sotto casa di Primo Moroni per capire cosa intendo, quel Primo Moroni che starà urlando anche lui dalla tomba nel vedere quello che sta accadendo. E ancora presidi a Palazzo Marino, interventi solidali da parte degli intellettuali della città (tra cui quel Paolo Rossi e il suo richiamo all'Urlo di protesta contro le finestre di Palazzo Marino durante la riunione della Giunta Comunale sul caso Conchetta), concerti in piazza XXIV Maggio, la grande e partecipata manifestazione dello scorso Sabato 24 Gennaio. Di una cosa quindi bisogna dare atto alla giunta Moratti: sono riusciti là dove nessun movimento politico e nessuna utopia sociale era riuscita negli ultimi vent'anni. L'azione di sgombero, la repressione di polizia e le arroganti parole del vicesindaco Riccardo De Corato, le sue minacce di chiusura di tutti i centri occupati di proprietà del Comune di Milano (Conchetta, Pergola, Torchiera e Cantiere), la mancanza di rispetto del sindaco Moratti nel volersi arrogare il diritto di gestione del patrimonio culturale raccolto da Moroni cui la figlia ha degnamente risposto con un accorato appello, hanno unito tutti sotto la stessa bandiera della protesta, dell'indignazione, della rabbia dettata dalla stanchezza. Sì, stanchezza. Perché quando parli con quelle che amo chiamare le “minoranza non-protette”, è la stanchezza il sentimento che prevale. Stanchezza verso una situazione di degrado culturale e urbano che pare ormai irrimediabile: la chiusura di Conchetta appare a tutti come un monito, come l'ennesimo tassello tolto sotto al culo di questa città ormai alla deriva sociale e culturale, incapace di ritrovare il bandolo della matassa tra Assessori Culturali superstar, politicanti di ventura, furbetti e traffichini, lobby di intellettuali politicizzati e lassisti che non sanno guardare al di là del proprio giardinetto costruito in anni di onorata attività, incapaci di condividere conoscenze, disinteressati a contribuire alla crescita di una nuova generazione di artisti e produttori di cultura della quale faccio parte, ma anzi colpevoli anche più di altri per il loro silenzio, la loro indifferenza, il loro atteggiamento classista. E questo non è il MIO pensiero, è un pensiero condiviso: queste cose non le penso solo io, da giornalista in questo caso cerco di riportare su carta un sentimento comune che penso ormai sia giunto il momento che venga ascoltato…che si faccia sentire! Stanchezza che non è infine uno stato mentale o fisico, è uno stato dell'anima. E non si tratta di compatirsi, non si tratta di parlare sempre male di questa città, si tratta di comprendere dove risieda il malcontento e da dove un giorno nascerà il germe del disordine sociale, perché quel giorno arriverà, è inevitabile ormai. Si tratta di comprendere a fondo le difficoltà economiche e di vita che la mia generazione di operatori culturali soffre in questa città, drammaticamente scevra di opportunità, di lavoro, svuotata di energia e di linfa vitale, costretta a sopravvivere attaccata con le unghie e con i denti a una speranza di rinascita di cui non si vedono però gli orizzonti e i confini. La città di Marinetti e del Futurismo, del Gruppo T di Gianni Colombo e di Bruno Munari, di Luigi Russolo e dello Studio di Fonologia della Rai, di Re Nudo e dell'esperienza del Parco Lambro, di Shake e di Primo Moroni, del Gruppo Memphis e di Ettore Sottsass, del Virus e del Deposito Bulk, di Studio Azzurro e di otolab e di tante, tantissime altre esperienze di avanguardia artistica, letteraria e sociale… In una città che oggi ha già iniziato a fare propaganda del suo slancio verso il futuro in vista dell'Expo 2015, del suo dna culturale aperto alle diversità e alla condivisione, in un città razzista e intollerante, indifferente verso le minoranza etniche che la abitano, incapace di guardare a nient'altro se non al profitto o alla cultura con la "C" minuscola, quella delle grandi mostre, dei grandi eventi, la cultura cosiddetta mainstream e di rappresentanza, lo sgombero di Cox18 non sembra quasi riguardare coloro che vivono lamentandosi, che non si riconoscono in questa città ma senza prendere posizione, a quelli che fuggono senza prendersi responsabilità, a coloro che sono solidali solo a parole e che si offendono quando glielo fai notare. L'occupazione di Cox 18 da parte delle forze di polizia, parla a quelli che genericamente i mass media chiamano “i movimenti”, ma che io preferisco individuare come un'area informe e incolore di facce ed esperienze, di artisti e intellettuali, spesso legati a forme di espressione artistiche alternative, quelle stesse di cui parla Digicult nel suo ambito specifico della cultura elettronica e digitale, dell'uso e misuso di tecnologie vecchie e nuove, delle sue applicazioni ed espressioni, sia nei territori emersi dei festival e delle mostre d'arte, che nei territori sommersi dei centri sociali da cui queste stesse culture provengono (come testimoniato da ben altre esperienze sociali e culturali a livello europeo in Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra, paesi del Nord Europa). I giorni scorsi e quelli che verranno saranno quindi inevitabilmente ricchi di iniziative, sia in strada che sulla Rete. Tanti sono i dubbi e gli interrogativi su cosa sia meglio fare e il modo in cui sia meglio farlo: tante sono state le chiacchierate degli ultimi giorni con amici e conoscenti. Io non ho una formula vincente, anche se per ovvia deformazione professionale penso che il mix tra azione “reale” e “virtuale” sia forse la soluzione migliore o per lo meno l'unica praticabile nell'attesa che Morpheus riesca a trovare in fretta il nuovo Neo che ci porterà tutti a Zion. Quello di cui sono però altrettanto convinto è che fino a quando non si riuscirà a sollevare l'attenzione dei media di massa, fino a quando non si parlerà di te e non verrà percepita a fondo la tua insofferenza e il tuo scontento, saremo destinati a combattere contro i mulini a vento. Il mio appello non è tanto all'artista di grido di turno che, secondo codici precisi di finta provocazione, tipici del mondo dell'arte contemporanea, attacca la miopia culturale di quelle Istituzioni che sono poi le stesse da cui viene invitato e coperto di denari, quanto agli intellettuali e agli artisti che amano veramente questa città, che comprendono la situazione di emergenza, che la conoscono dal di dentro, che possono farsi carico di una voce che altrimenti si ritroverà per l'ennesima volta da sola a combattere per quello che reputa un suo diritto: la cultura, il lavoro culturale che da essa può derivare, e gli spazi liberi e scevri da qualsiasi logica politica, economica e lobbistica, dove esercitarla! Io, dal canto mio, voglio essere una nemesi, un tarlo, usare l'unica vera arma che ho. Come mi disse una volta Ettore Sottsass in un'intervista di qualche anno fa: “Tu hai un'arma, più efficace di tante altre. La parola. Usala.” C'è una frase di De Andrè che continua a tornarmi in mente, ancora oggi dopo il primo testo a cui questo fa riferimento, sono sicuro che molti di voi la ricordano: "E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri, senza le barricate senza feriti, senza granate, se avete preso per buone le "verità" della televisione, anche se allora vi sentirete assolti siete per sempre coinvolti".

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