18 febbraio 2009

LA DERIVA PARITARIA DELLA SCUOLA PUBBLICA


LA DERIVA PARITARIA DELLA SCUOLA PUBBLICA

Se il disegno di Legge Aprea diventerà legge della Repubblica, la scuola pubblica italiana si avvierà verso una deriva paritaria. In nome della “libertà di scelta delle famiglie” si andrà ad intaccare seriamente il diritto all’istruzione attraverso un’interpretazione liberal del dovere all’istruzione, inteso, nel nuovo linguaggio del ddl Aprea, come libera scelta sul mercato dell’offerta formativa. Alla violenza asettica del linguaggio aziendalista in ambito scolastico siamo ormai abituati dai tempi dell’autonomia, e forse anche un po’ assuefatti, tanto che le “idee” espresse dalla Fondazione Agnelli sulle modalità di reclutamento degli insegnanti o sul riordino degli istituti professionali vengono discusse pubblicamente con un certo interesse.

Tuttavia, con il disegno Aprea si compie un passo decisivo verso la trasformazione delle scuole pubbliche in istituti privati finanziati dallo Stato, oltre che da eventuali partner privati. Piena realizzazione dell’autonomia scolastica, libertà di scelta delle famiglie, valutazione e gerarchizzazione della professione docente, riforma degli organi collegiali, partner privati nei consigli di amministrazione delle scuole-fondazioni. L’asse portante di tutto il disegno non è il principio di sussidiarietà, così come recita il testo del ddl, ma il principio della competizione come unico e miracoloso dispositivo di innalzamento degli standard qualitativi dell’ offerta formativa: competizione tra gli istituti in base alla libera scelta delle famiglie “che spostano i finanziamenti in base alle loro scelte”; competizione tra i docenti, attraverso l’individuazione di una carriera in tre livelli “fondata su modalità e su criteri di valutazione basati sul merito professionale”. Questi gli ingredienti principali, la mano invisibile del mercato dell’offerta formativa dovrebbe fare il resto. Le parole “autonomia” e “libertà di scelta” toccano nel profondo le coscienze di qualsiasi libero cittadino, di una qualsiasi libera democrazia di un qualsiasi Stato fondato su principi liberali; tuttavia la loro declinazione economica secondo la più classica vulgata liberista, soprattutto in un ambito così delicato come il diritto-dovere all’istruzione, necessita delle serie precisazioni.

Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale e abbia letto anche un semplice bigino della storia economica degli ultimi due secoli, potrà convenire con noi nel ritenere quantomeno sospette e favolose le tanto decantate virtù benefiche della mano invisibile dei mercati. Tuttavia, ammesso e non concesso che nel vasto campo dei beni di consumo il mercato, quindi la libera competizione, possa avere delle conseguenze benefiche per il consumatore, nel caso del diritto-dovere all’istruzione, questo stesso mercato avrà come conseguenza generale un effetto contrario a quello sperato, proprio per il fatto che dovrà andare incontro alle scelte delle famiglie, quindi ai loro bisogni. Per evitare accuse di apriorismo o di ideologismo antiliberista, per corroborare la nostra ipotesi, ci basta dare uno sguardo veloce al livello di preparazione degli studenti delle scuole paritarie, il mercato delle quali può rappresentare un campione significativo di quello che sarà il futuro della scuola "pubblica-privata". Le scuole private paritarie sono in competizione tra loro. Da qualche anno le famiglie possono usufruire di un bonus per esercitare la loro libera scelta all’istruzione e i costi delle rette sono generalmente alti; quest’ultimo fatto ci fa pensare che gli studenti provengano da famiglie abbienti, quindi presumibilmente appartenenti ad un ceto medio-alto, anche culturalmente. Bene, esistono due dati significativi che ci permettono di capire il funzionamento della mano invisibile del mercato nel campo dell’istruzione e le conseguenze dell’armonizzazione dei bisogni delle famiglie con l’offerta formativa degli istituti. In primo luogo, tutte le scuole paritarie, in particolare quelle superiori, hanno un andamento a piramide rovesciata (aumento degli iscritti dalle classi prime alle ultime): a mano a mano che si procede nel corso di studi e la meta del diploma si fa sempre più vicina ma, per chi ha difficoltà, sempre più lontana, le scelte di molte famiglie italiane si spostano dalla scuola pubblica alla privata: i genitori sono disposti a pagare di più a fronte di una garanzia maggiore di diplomarsi in tempi ragionevoli. Secondo dato - molto più significativo perché riguarda il rapporto interno tra le scuole private e non il confronto tra pubblico e privato - le scuole private che hanno maggiore richiesta di iscrizioni sono anche quelle “notoriamente” più facili. Il risultato generale è che gli istituti paritari, per poter essere competitivi sul mercato, devono abbassare il livello di difficoltà e di valutazione. Questa situazione degenerativa non ha limiti, proprio perché è soggetta alle dinamiche del mercato; in questo modo si può arrivare alle situazioni limite, frequentissime nel nostro Paese tanto al Sud quanto al Nord, dei famosi diplomifici in cui l’unica difficoltà per il raggiungimento di un diploma è l’esborso di qualche migliaia di euro. Non abbiamo ancora parlato – e volutamente - di qualità dell’insegnamento e nemmeno di offerta formativa, ma solo di “livello di difficoltà”. Infatti, cosa significa “qualità dell’insegnamento”? Cosa significa “offerta formativa”? Ma soprattutto chi determina questi parametri ? Il Ministero della Pubblica Istruzione o la libera scelta delle famiglie? Su questi punti bisogna essere tanto onesti quanto fare considerazioni molto semplici, a costo di dire qualcosa di politicamente scorretto. Nella “qualità dell’insegnamento” e “nell’offerta formativa” rientra anche la “fatica di studiare”? Fatica: questa parola così antipatica e così poco moderna - così poco cool - una parola che qualsiasi pubblicitario ingaggiato da un qualsiasi volenteroso dirigente scolastico per pubblicizzare la “sua” nuova scuola-fondazione penserebbe subito di cancellare. La famiglia media italiana alla quale la scuola-fondazione dovrebbe rivolgersi per intercettare la sua clientela, quindi aggiudicarsi una maggiore “quota capitaria”, quali esigenze ha? Fare studiare i figli o “fargli prendere un diploma”? E tuttavia, e molto semplicemente, il punto è proprio questo: se l’istruzione fosse solo un diritto non ci sarebbe nessun problema, ma è anche un dovere e, per ora, le forme e modalità di adempimento di tale obbligo sono stabilite per legge e non in base alla libera scelta delle famiglie. Se il dovere all’istruzione rimane qualcosa di regolato per legge, secondo canoni ben definiti e soggetto a regole e controlli uniformi in tutte le scuole della Repubblica, allora anche il diritto sarà tale; se invece l’adempimento di quest’obbligo avverrà secondo le libere leggi del mercato dell’offerta formativa, allora anche l’esercizio del diritto all’istruzione sarà irrimediabimente soggetto alle fluttuazioni delle offerte sul mercato. Il circolo è vizioso. Infatti un abbassamento qualitativo generale delle possibilità di istruzione determina anche un deficit nella possibilità di esercitare tale diritto: ci saranno, nella squalificazione generale degli istituti scolastici pubblici-privati, alcuni istituti d’elìte, seri e responsabili, nei quali alta qualità, selezione, difficoltà e ampia offerta formativa riusciranno ad armonizzarsi quasi per incanto; ma per iscriversi a questi sarà necessario pagare una retta molto alta.
Il panorama delle scuole superiori, nella fase successiva all’adempimento dell’obbligo, ovviamente complica in negativo l’intero circolo, perché in esse rimane solo il diritto e viene meno il dovere, quindi l’esposizione alle logiche di mercato è maggiore.

Due ultime considerazioni, una di carattere generale e una particolare, riguardo la situazione specifica del nostro Paese. In quest’operazione di slittamento dal pubblico al privato nel campo dell’istruzione, si può vedere un vero e proprio mutamento del rapporto tra cittadino e Stato, per quanto riguarda il diritto/dovere all’istruzione. Lo slittamento di cui sopra prende la forma di un passaggio da una dimensione giuridico-politico nel rapporto cittadino-Stato, nell’esercizio del diritto e nell’adempimento dell’obbligo all’istruzione, ad una dimensione economica in cui il cittadino si fa consumatore e lo Stato “garante” dell’erogazione di un servizio. Il rapporto politico cittadino-Stato è da intendersi in senso eminente: la scuola pubblica come istituzione finalizzata alla formazione del cittadino, nell’interesse sia della società, sia del cittadino. La qualità dell’insegnamento in questo caso non può essere scissa dall’ individuazione di standard di difficoltà relativamente alti per gli studenti – proprio perché è interesse della società in generale avere cittadini “preparati”. Al contrario, il rapporto economico consumatore-erogatore di servizi salta pienamente la dimensione politica e riduce l’istruzione a prodotto accessibile in varie forme sul vasto mercato dell’offerta formativa e con modalità scelte dal consumatore stesso, il quale determina, come sempre, gli andamenti del mercato. In questo caso non c’è nessun interesse alla definizione di standard uniformi di preparazione, perché la relazione scuola-studente si ridurrebbe ad una mera relazione fra ente di servizi – cliente. Il caso limite al quale porterà questa seconda opzione – caso peraltro già annunciato dal Ministro Gelmini in più occasioni – è la assoluta personalizzazione dello stesso percorso formativo, secondo il quale il singolo studente può decidere quali materie seguire e quali no, per raggiungere il pacchetto di crediti necessari a raggiungere la meta finale; pacchetto in cui un corso di bridge può valere tanto quanto un corso di fisica quantistica.

La seconda considerazione riguarda il nostro desolante quadro nazionale. Quali effetti avrà un’istruzione pubblica-privata-balcanizzata per il tessuto culturale degli italiani ? Rinunciare ad un’ istruzione pubblica intesa come cardine fondamentale del rapporto tra cittadino e Stato, per la specificità del nostro Paese e della nostra tradizione culturale, significa rinunciare definitivamente ad avere una cultura condivisa. E per la nostra storia unitaria, mai veramente compiuta e per buona parte fondata su di una dimensione culturale, nel senso alto del termine (di quella cultura che si studia sui banchi di scuola) - non nell’accezione, peraltro altrettanto nobile, antropologica del termine-, sarebbe sicuramente un ennesimo slittamento verso una deriva balcanizzante se non definitivamente secessionista. In secondo luogo è forse utile ricordare che un paese “con la borghesia più ignorante d’Europa e il popolo più analfabeta” (da Ricotta di Pasolini ci separano poco meno di due generazioni), non può proprio permettersi di abbassare gli standard qualitativi di preparazione culturale dei propri cittadini. Se fosse solo un problema di far risultare sulla carta a fini statistici un numero di diplomati maggiore, come è successo recentemente per le facili lauree triennali, ci sono strade molto più brevi da percorrere.

In tutto questo marasma, quel problemino che da almeno una ventina d’anni viene chiamato “crisi della scuola” o “crisi dell’educazione/istruzione” come sintomo cronico della crisi generale dell’enciclopedia dei saperi della tradizione culturale dell’Occidente e delle possibilità della sua trasmissione, non viene minimamente affrontato né da chi ha responsabilità di governo né da chi ha responsabilità intellettuali nel mondo dei media.

Emanuele Rainone



Nessun commento:

Posta un commento